Scrivere è gettare sassi nell’acqua. Quando leggi, invece, sei acqua.
Amare una certa sequenza di parole è vibrazione, liquidi cerchi che
s’allargano, giungono alla riva, increspandosi su forme e profili,
interferendo con altre onde, eventualmente. E dopo, ventre denso più o
meno trasparente a rallentare la discesa, quindi fondo che accoglie.
Là i sassi s’appoggiano accostandosi ad altri, magari ricombinandosi
in sedimenti piramidali di nuove sequenze.
Un problema tra gli altri dello scrivere è questo: non conoscere
davvero i sassi. A prima vista, mentre li scaldi nelle mani, possono
sembrare lucidi e leggeri e coperti da una patina brillante. Oppure
pesanti, importanti, tanto che messi uno accanto all’altro e poi uno
sopra l’altro ti sembra di poterci costruire una cattedrale.
Ma fin
quando li tieni nella tua stanza sono soltanto pesci in un acquario.
Non puoi sapere se saranno in grado di sopravvivere, generando onde
brillanti sotto il sole oppure importanti come base d’un pilastro.
Quanto pretendi di conoscere l’acqua altrui?
A volte le tue parole non
sono che briciole: l’onda indifferente le deposita sulla riva. A volte
si confondono trascurabili dentro mareggiate già partite, a volte
restano isolati sul fondo sotto uno strato spesso di fango.
Conta il
rapporto, tra quell’acqua e quei sassi.
È sempre un miracolo imprevisto e imprevedibile e non progettabile
quello che accade quando le tue parole smuovono esattamente quella
vibrazione che le molecole dell’acqua stavano aspettando senza
saperlo.
Con sorpresa ed emozione iniziano a muoversi tutte insieme,
in una coordinazione ignota ma immediatamente riconosciuta.
A volte,
mentre siedi sulla riva, vedi disegnare geometrie cui non avevi
nemmeno pensato. Resta lì, ma solo un attimo, poi dimentica subito la
sicurezza della gioia, che porta soltanto a un concerto di latta.
L’unica cosa che puoi fare è restare fedele alla tua acqua, per quanto
impossibile questo possa essere.
Pars, Jardin du Luxembourg, reflection of the world into the Medici
Fountain